Nomadland

Un viaggio on the road alla scoperta di esistenze ai margini della società, vincitore del Leone d'oro e di tre Oscar.

di EMILIANO BAGLIO 30/04/2021 ARTE E SPETTACOLO
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Arrivati all’ennesimo tramonto infuocato accompagnato dall’insopportabile pseudo new-age da discount che è la “musica” di Ludovico Einaudi un tarlo si insinua nella mente dello spettatore.

Intanto Nomadland prosegue a raccontare le storie di Fern (Frances McDormand) e tutti gli altri “nomadi” moderni non per scelta ma per necessità.

Vite ai margini della società che si spostano di continuo a bordo di camper e furgoni sopravvivendo grazie a lavoretti per lo più stagionali.

Ci si ritrova a chiedersi quanto ci sia di reale nei discorsi che i protagonisti si scambiano attorno al fuoco.

In realtà il terzo lungometraggio di Chloé Zhao trae ispirazione da Nomadland – Un racconto d’inchiesta della giornalista Jessica Bruder.

La regista lo ha trasposto in un film che si muove sul sottile filo che separa la fiction dal documentario, tant’è che alcuni dei protagonisti del film (Linda May, Charlene Swankie e Bob Wells) interpretano sé stessi.

Mentre la visione prosegue vengono in mente collegamenti con Into the wild (2007) di Sean Penn e Below sea level (2008) di Gianfranco Rosi, nei quali compare la comune/comunità di Slab city, anch’essa formata da persone che vivono ai margini della società.

Il tarlo, nel frattempo, non si è di certo placato.

Perché Nomadland è un film ricattatorio, pur se costruito ad arte, che inonda lo spettatore con una retorica esagerata invischiandolo senza possibilità di scampo.

La regista, per carità, sa il fatto suo, nulla da eccepire.

Bisogna essere proprio delle brutte persone per rimanere insensibili alle storie narrate nel film.

Come resistere a queste esistenze fatte di incontri fugaci, piccoli lavori saltuari e lunghe strisce di asfalto da percorrere?

Come non rimanere coinvolti dalla vita di Fran, dal suo sentirsi soffocata tra le mura di una casa, dal fragile sentimento che potrebbe legarla a Dave (David Strathairn) se non fosse che il richiamo della strada è oramai irresistibile?

Come non commuoversi per i paesaggi mozzafiato americani?

Per la solitudine spezzata da un autentico senso di comunità e mutuo soccorso che lega queste persone?

“See you down the road” che sia tra un mese, tra un anno o tra dieci.

Eppure il tarlo alla fine resta.
Nonostante quel malinconico senso di libertà sottolineato dagli splendidi paesaggi che ti rimane dentro e quella solitudine agrodolce della protagonista, nonostante l’oggettiva bellezza del film non si riesce a smettere di pensare che tutto nel nuovo lavoro di Chloé Zhao sia abilmente costruito ad arte per commuovere, tra retorica e ricatti sentimentali, lo spettatore più insensibile.

EMILIANO BAGLIO


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